Salvare la faccia a costo di naufragare miseramente o perdere la faccia e sopravvivere?

Salvare la faccia a costo di naufragare miseramente o perdere la faccia e sopravvivere?

Quando arrivano le difficoltà, sai essere flessibile e chiedere aiuto a chi ha la possibilità di aiutarti oppure preferisci affondare nei problemi e rischiare di fallire?

Sapevi che nel mondo delle imprese, molte situazioni difficili, diventano irreparabili perché l’imprenditore in difficoltà non ha il coraggio di ammettere i propri errori e dunque non permette a chi potrebbe, di aiutarlo a uscire dalla crisi? 

A te che sei responsabile di un’impresa e quindi da te dipende il tuo benessere e quello di altre persone, vorrei raccontare la mia personale esperienza nel mondo della crisi di impresa, o per meglio dire nel mondo delle PERSONE IN CRISI nell’impresa.

Sì perché, parlando di crisi di impresa, ci si riferisce quasi sempre alla figura dell’imprenditore distaccata dall’essere umano che di fatto rappresenta, con tutti i limiti e i pregi che ne contraddistinguono le peculiarità. 
Questo è un grave errore di valutazione, che nel momento di massima tensione può significare la salvezza o la disfatta dell’impresa in crisi. 

Ogni responsabile di impresa compie quotidianamente delle scelte.

Queste scelte sono governate da una serie di fattori tecnici e da condizionamenti umani tipici di tutte le persone. Ecco allora che in ogni momento vediamo che i nostri risultati sono la manifestazione dei nostri comportamenti, i quali sono condizionati dallo stato d’animo del periodo, il quale è diretta conseguenza dei pensieri che costruiamo e dunque delle cose che ci diciamo, vale a dire il nostro dialogo interno.
A tutto questo aggiungiamo alcuni tecnicismi specifici della situazione in esame, (anche se marginalmente) ed ecco che la nostra personale realtà è pronta e servita. 

Questo stato di fatto è raramente considerato durante i periodi di crisi, proprio da coloro che dovrebbero intervenire per aiutare i salvataggi.
Da una ventina di anni mi occupo di formazione e analisi delle performance umane, ma circa dieci anni fa, venni contattato da un’azienda di consulenza nell’ambito della crisi d’impresa che mi spiegò che al tempo, un risanatore d’impresa altro non era che un becchino, che piantava i chiodi sulla bara dell’impresa in difficoltà, cercando di produrre meno trucioli di legno possibile.

Questa situazione, mi si spiegò, doveva cambiare, poiché rispetto alla crisi, il consulente doveva porsi come un RIANIMATORE DI IMPRESA e non come un beccamorto. Il problema girava tutto intorno al fatto che nessuno considerava l’imprenditore una persona con limiti e capacità, ma più semplicemente si guardavano i numeri sballati. Dunque, mi proposero una collaborazione per accompagnarli nella gestione dei vari imprenditori/persone in difficoltà.

La sfida era: come fare per fare accettare al cliente in crisi, la strategia di salvataggio? Vale a dire, come fare per portarlo ad aggrapparsi all’unico salvagente lanciatogli mentre ormai in preda ai crampi cerca di galleggiare in mezzo al mare? 

Come disse Roy, l’androide di Blade Runner, ho visto cose che voi umani… 

Uno dei fattori chiave nel gestire la crisi da parte del consulente, è la vergogna del cliente sventurato. Vergogna nel dover ammettere di avere sbagliato, mentito, intrigato, promesso a vuoto, compromesso altri, o più semplicemente vergogna per aver sbagliato per incapacità. L’ammetterlo porterebbe ad uscire allo scoperto, con famigliari, amici e collaboratori diretti e non. Ammettere di aver sbagliato può significare rivedere la propria immagine pubblica, dover sostenere lo sguardo degli altri, nei casi più gravi rinunciare a dei rapporti umani. L’orizzonte possibilista del: “contraggo e rinuncio oggi per potermi rilanciare dopo”, lascia il posto a “non posso ridurre le spese della mia famiglia perché poi cosa mi diranno?”, senza accorgersi, che in automatico quest’ultima diventa, “rimarrai in quella casa fino all’asta, poi vedi tu dove andare”. 

Andando a guardare la casistica, riporto il caso di un imprenditore che aveva infilato una serie di stupidaggini gestionali, a tratti consapevole di quello che faceva, a tratti no, che lo hanno portato a decidere di mentire niente di meno che al proprio avvocato, per non apparire così tanto incapace e sciocco. L’avvocato, sulla scorta di quanto NON saputo, conduce una strategia che in breve si trasforma in un clamoroso autogoal.  

Oppure quell’artigiano in difficoltà che presenta la stessa fattura a differenti banche, le quali ricevendo insoluti, lo convocano per spiegazioni, quindi richiede l’intervento dei consulenti, “per favore accompagnatemi”. La notte prima dell’incontro non dorme agitatissimo: si vergogna di andare in una delle banche poiché il direttore lo ha sempre aiutato, ma ora deve ammettere di averlo preso in giro per coprire le difficoltà aziendali. Deve ammettere di non essere così bravo come ha fatto credere. Gli ha mentito. 

Potrei continuare con la moglie che si accorge che qualcosa non va perché la carta di credito non è più capiente, e allora scopre che il marito/imprenditore mente da tanto tempo, oppure degli status symbol che vengono pagati dirottando le poche risorse economiche rimaste in azienda anziché far fronte alle necessità prioritarie del business, e tante altre situazioni anche più banali, che per vergogna vengono nascoste andando a creare un circolo vizioso autodistruttivo. 

In generale il più diffuso senso di vergogna viene provato per la presunta perdita di status sociale, o per lo scoperchiamento del vaso di pandora: le bugie sono state raccontate ai creditori per ottener fiducia: “non è vero che ero bravo, è vero che sono un incapace”. Oppure per la possibile perdita della stima da parte di amici e famigliari e quindi la vergogna ad ammettere le difficoltà. Dunque, la paura di venire percepiti come incapaci e inaffidabili, rappresenta il tema centrale in questo tipo di situazioni disfunzionali. 

In conclusione, quell’imprenditore che mi ingaggiò dieci anni fa, risultò essere piuttosto realista e lungimirante. Posso affermare che quando collaboro in questo tipo di consulenze, ho davvero visto portare a termine delle missioni improbabili (più che impossibili), che hanno dimostrato la necessità di prendersi cura della persona in crisi, oltre che dei suoi affari.

Questo affiancamento, di fatto un vero mental coaching di concerto con gli esperti di leggi e numeri, può portare ad un drastico aumento delle possibilità di sopravvivenza in caso di crisi.

La necessità da soddisfare riguarda la percezione del problema da parte dell’imprenditore e la sua capacità di accettare la situazione al fine di diventare colui che contribuisce alla risoluzione della crisi che è stata creata.

La consulenza non può essere monotematica, ma deve essere un concerto di differenti professionisti che operano in settori diversi ma con un obiettivo comune che è quello di portare valore nei confronti del cliente, che fidandosi, ripone le sue sorti nelle mani dei suoi RIANIMATORI d’impresa. 

In fin dei conti se stai annegando e interviene il tuo soccorritore, la cosa migliore che puoi fare è stare fermo e lasciare che ti porti in salvo. Questa è la parte tortuosa, ossia riconoscere, accettare, affidarsi. Questo è il valore aggiunto che viene proposto in una consulenza moderna.

Questa è la strategia di Distriko®.

Un solo consulente, per quanto bravo, non può far fronte a tutte le esigenze di un’impresa nei giorni nostri e di un imprenditore ambizioso, nè può intercettare tutte le opportunità che possono produrre valore per l’imprenditore e l’impresa stessa. 

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Massimiliano Calabrese

Massimiliano Calabrese


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